Stop ai controlli infiniti

Come è noto i costi di «utilità pluriennale» non sono dedotti integralmente nell’esercizio di sostenimento, ma vengono imputati anche negli anni successivi. Ne consegue così che in un determinato periodo di imposta potrebbero esserci quote di ammortamento relative a beni acquistati in anni il cui potere di accertamento è già decaduto.
La circostanza ha suscitato dubbi nell’ambito dell’attività di controllo: secondo la prassi seguita dai verificatori, infatti, poiché “parte” di quel costo ha rilevanza in esercizi ancora accertabili, è possibile verificarne la congruità fin dall’origine e, quindi, è legittimo disconoscere parte o tutto del valore di acquisto.
Si pensi ad esempio a un macchinario acquistato al prezzo di 100mila euro nel 2010 (periodo di imposta per il quale è decaduto a fine 2015 il potere di rettifica da parte dell’amministrazione) e ammortizzato al 10% annuo, pari cioè a 10mila euro imputati in ciascun esercizio. Cosa succede se nel corso di una verifica nel 2018 e relativa al 2014 (anno ancora accertabile), nell’ambito del controllo dei beni strumentali, i verificatori ritengono per le più svariate ragioni che solo 20mila dei 100mila euro sostenuti siano deducibili?
Secondo l’interpretazione dell’amministrazione finanziaria, poiché la quota di ammortamento ha rilevanza in anni ancora accertabili, è possibile recuperare a tassazione la parte ritenuta indeducibile rispetto al costo originario. E quindi, seguendo l’esempio, è legittimo il recupero di 8mila euro dei 10mila imputati in ammortamento.
Per la Suprema corte invece se per i costi che danno luogo a una deduzione frazionata in più anni la decadenza del potere di accertamento dell’amministrazione si realizza al 31 dicembre del quarto anno successivo a quello di ciascun periodo di imposta in cui è dedotto il costo ovvero a quello in cui è stato iscritto il costo originario.
Con la recente sentenza 9993/2018 i giudici di legittimità hanno innanzitutto ricordato che in conformità dei principi affermati dalla Consulta (sentenza 352/2004), l’interpretazione della norma sulla decadenza non può lasciare il contribuente esposto all’azione esecutiva del fisco per termini eccessivamente dilatati. Ciò anche perché il contribuente è tenuto alla conservazione dei documenti per gli anni oggetto di possibile controllo.
Per non violare questi principi, secondo i giudici di legittimità nell’ipotesi di costi la cui deducibilità è frazionata nel tempo, il computo della decadenza decorre dall’anno in cui è stato iscritto in bilancio il valore da ripartire. Perciò, se il Fisco non ha disconosciuto tale originaria iscrizione, le relative quote imputate negli esercizi successivi divengono deducibili.
L’unica contestazione in tali periodi di imposta, può riguardare un’eventuale errata determinazione perché ad esempio imputata in misura superiore o malamente calcolata.
Gli acquisti non rettificabili
Alla luce di questo principio occorre individuare se l’acquisto del bene strumentale in ammortamento sia avvenuto in un anno non ancora decaduto:
fino al periodo di imposta 2015 (modello Unico 2016), gli uffici potevano notificare accertamenti entro il 31 dicembre del quarto anno successivo a quello di presentazione (o quinto in caso di omessa dichiarazione). Quindi, se la dichiarazione è stata presentata, nel 2018 risultano decaduti gli acquisti effettuati fino al 2012, a prescindere dal fatto che il relativo ammortamento sia ancora in corso. Inoltre, la norma prevedeva il raddoppio dei termini se la violazione comportava l’obbligo di denuncia di un reato tributario. È pertanto verosimile che in tale ipotesi, il maggior termine consenta all’ufficio di verificare gli acquisti di cespiti anche se avvenuti in periodi precedenti al 2012;
dal periodo d’imposta 2016 (modello Redditi 2017), invece, gli uffici possono notificare gli accertamenti entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione (ovvero se omessa o nulla entro il 31 dicembre del settimo anno successivo a quello in cui si sarebbe dovuta presentare). E quindi, ad esempio, il bene strumentale acquisito nel 2016, potrà essere verificato e nel caso contestato solo fino al 2022, senza peraltro alcuna possibile proroga anche in presenza di reato, dato che la modifica ha abrogato il raddoppio dei termini.
Tratto da IL Sole24Ore – Autore Laura Ambrosi e Antonio Iorio

La recente pronuncia della Suprema corte sui termini di decadenza per gli oneri pluriennali (sentenza 9993/2018) potrebbe avere un risvolto pratico anche con riguardo alle dichiarazioni delle persone fisiche non titolari di reddito di impresa. È il caso, ad esempio, delle spese di ristrutturazione edilizia, risparmio energetico o acquisto di arredi (recuperabili in dieci anni), così come delle spese mediche rateizzate in più esercizi: si tratta di oneri che, sebbene sostenuti in un determinato periodo di imposta, influiscono in più dichiarazioni.
Non di rado, l’agenzia delle Entrate, in occasione dei controlli formali, richiede la documentazione relativa al sostenimento della spesa, anche se riguarda un’annualità diversa rispetto a quella oggetto di controllo.
Secondo l’ufficio, infatti, la legittimità della deduzione o detrazione dell’onere, va verificata in origine e quindi se per le più diverse ragioni, la spesa o parte della stessa non poteva essere dedotta o detratta, il recupero può riguardare anche le annualità nelle quali è presente solo una quota dell’onere.
Si pensi a una ristrutturazione edilizia effettuata nel 2007 per la quale la detrazione sia stata divisa in dieci anni. Se l’Agenzia procede a un controllo formale della dichiarazione presentata nel 2016, normalmente richiede la documentazione del 2007 sul sostenimento della spesa (ricevute dei bonifici, fatture, permessi edilizi, eccetera). Dopodiché, in caso di irregolarità, recupererà la detrazione, anche se non è stata contestata nel primo esercizio di sostenimento (cioè nel 2007).
Ebbene, anche se nella pronuncia della Suprema corte si fa riferimento al reddito di impresa, è possibile ritenere applicabile il principio, nel presupposto che si tratta comunque di costi la cui deducibilità è ripartita nel tempo. In questa ipotesi il computo della decadenza decorrerebbe dall’anno in cui è stato iscritto il valore da ripartire. Perciò, se l’amministrazione non ha disconosciuto tale originaria iscrizione, le relative quote imputate negli esercizi successivi diverrebbero deducibili, salvo eventuali errori di calcolo o ripartizione.

Tratto da IL Sole24Ore – Autore Laura Ambrosi e Antonio Iorio